Addio a Pelè “Edson Arantes Do Nascimento” il Re del Calcio. La leggenda del calcio aveva 82 anni.

In cielo, da dio del calcio, Pelè era già salito. Era il 21 giugno 1970. Minuto 18 della finale mondiale tra Brasile e Italia allo stadio Azteca di Città del Messico: rimessa di Tostao, palla a Rivelino, cross al volo sul secondo palo e Pelè, sospeso nell’aria per un tempo apparso interminabile, supera Burgnich e di testa la infila nell’angolino.

Per O’ Reyall’anagrafe Edson Arantes do Nascimento, 173 centimetri di talento puro cresciuto nelle favelas di Bauru tirando calci ad un pallone di stracci, quel gol vale il terzo Mondiale vinto in carriera (1958, 1962 e 1970), la Coppa Rimet portata per sempre in Brasile e un posto da immortale nella storia del calcio. Oggi, con la scomparsa di Pelè, per il Brasile è lutto nazionale. Per il calcio mondiale è lutto totale. Aveva 82 anni.

Nessuno, fino ad ora, è riuscito a eguagliarlo. Annotazione a margine: Pelè, nel giorno di quella finale, aveva appena 29 anni e 8 mesi.

Un’età che nel mondo pallonaro attuale permette, a nani e prime ballerine (sportivamente parlando), di giocare e incassare ancora ad altissimi livelli.

Lui, invece, dopo quella finale ad ascensione celestiale con la Selecao scese in campo altre 4 volte prima di dire adeus.

Le scarpette le appese definitivamente al chiodo a 7 anni di distanza, dopo una vita con la maglia del Santos (10 campionati vinti, due Libertadores e due Intercontinentali) e due stagioni, dal 1975 al 1977, a predicare (nel deserto) calcio con i New York Cosmos. Il piano contabile definitivo è ancora oggi abbagliante: 1281 gol in 1363 partite giocate, 77 dei quali in 92 partite con la maglia verdeoro.

Era ricoverato dal 29 novembre

Pelé, dallo scorso 29 novembre, viveva nell’ospedale Einstein di San Paolo dove le cure chemioterapiche (in seguito al tumore operato un anno fa) erano state sostituite da un percorso palliativo.

Le voci di un aggravamento sono state dribblate dalla famiglia e poi dal bollettino dell’ospedale ma l’idea di essere di fronte all’ineluttabile, giorno dopo giorno, era ormai chiara a tutti. Pelè è stato inserito dal Time tra le 100 figure più influenti del XX Secolo.

In Brasile è stato dichiarato “Tesoro nazionale” dal presidente Janio Quadros e, nel 2011, patrimonio storico-sportivo dell’umanità. In lui non c’era solo la spettacolarità ed estemporaneità della tecnica ginga insegnata dal padre Dondinho palleggiando con dei frutti. Andate su youtube e cercate qualche sua partita, una giocata, un’azione.

Guardandolo – come scriveva Brera – si capisce perché i brasiliani gli abbiano stampato l’orma del piede sulla copertina del libro Eu sou Pelé, perché per lui abbiano chiesto sogghignando un miliardo. “Sono onesti.

Per Pelé ci vuole un trilione, cioè mille miliardi. Eppure era traccagnotto e potente, ma nello stesso tempo agile e sciolto, come i grandi atleti olimpici che corrono soltanto. Batteva di sinistro e destro, sempre mirando.

Dribblava con movenze armoniose, sornione, plastiche, senza sculettare o danzare come tanti. Rifiutava il numero di dribbling (el pase) come una manifestazione deteriore e inutile. Mettete tutti gli assi che volete in negativo – scriveva ancora Brera – poneteli uno sull’altro: esce una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti”.